Tracce di antiche rivendicazioni di “kelle terre”: Capua e i suoi placiti
Passeggiando tra le suggestive strade di Capua, città di Osca fondazione, crocevia di antichi popoli italici quali etruschi e sanniti, nonché teatro di importanti guerre per l’egemonia romana, e sostando nella piazza antistante il grande portale del Sacro Palazzo dei Principi, guardando in giù, è possibile imbattersi nella seguente iscrizione: <<Sao ko kelle terre per kelle fini que li contene trenta anni le possette parte sancti Benedicti>>. Apparentemente non degna di grande nota, in realtà, essa richiama alla memoria dell’ignaro viandante un’antica disputa circa il possesso di alcune terre la cui testimonianza, nell’atto in cui è formulata, diede alla città di Capua la paternità indiscussa di terra “madre” della nascita del volgare italiano nei documenti ufficiali, laddove in tali documenti, la priorità linguistica era riservata al latino.
Ma facciamo un “salto” nel vivo della contesa: Nel marzo 960 d. C. un tale giudice Arechisi, su richiesta dell’Abbazia di Montecassino, convoca a Capua tre testimoni per definire la proprietà di alcuni appezzamenti di terra, in quanto, nella prima metà del IX sec, l’Abbazia era stata oggetto delle scorrerie e devastazioni dei feroci Saraceni, provocando il trasferimento dei monaci in altre Abbazie. Nel X sec. i monaci avvertono l’esigenza di riprendere i propri territori e di ridefinirne i confini contesi col feudatario Roderlgrimo D’Aquino, pur non avendo una documentazione scritta. La soluzione, al fine di dare una validità giuridica a tali possedimenti, è quella di convocare tre testimoni che dichiarino di sapere che l’Abbazia è in possesso di queste terre da trenta anni. E il risultato è dato dal fatto che tre ignari testimoni dichiarando che “ Mi risulta che la terra di cui stiamo parlando, secondo i confini di cui qui ne sono stati descritti, trent’anni l’ha posseduta l’Abbazia di San Benedetto”, abbattevano i confini della lingua volgare aprendola anche ad un uso scritto. Ad essa seguiranno, nel 963, altre tre testimonianze nei territori di Sessa Aurunca e Teano che, insieme a quella di Capua, daranno vita ai “Placiti Capuani” o “Cassinesi”. Dunque, il volgare italiano, la lingua per eccellenza del vulgus, ossia del popolo, figlia del latino, si affiancava ad esso, diventando testimonianza del fatto che l’esigenza comunicativa, spesso, è destinata a prevalere sulla forma.
L’iscrizione che primeggia nella piazza capuana ci ricorda un evento cruciale della storia linguistica italiana, evento degnamente ricordato attraverso la rievocazione storica della disputa tenutasi a Capua il mese scorso.
Il documento originale del placito è attualmente conservato e visibile presso il museo dell’Abbazia cassinese.
Dott.ssa Valeria Nerone